HIIT - High Intensity Interval Training

Di Gian Mario Migliaccio

Nell’evoluzione della specie uomo, i nostri antenati dovevano effettuare percorsi giornalieri di oltre 15 km, non tutti a velocità costante, perché certo quegli ominidi alternavano momenti a basse intensità, in silenzio per catturare le prede, con fasi di impegno molto intense, al massimo delle proprie possibilità per sfuggire alle belve. Senza avere una seconda possibilità. Allo stesso tempo, essi effettuavano azioni dinamiche come camminare o correre, sia in pianura che in montagna, ma anche azioni di potenza e di velocità per superare dossi o fiumi. Un susseguirsi, quindi, di fasi diverse per intensità, ritmo, velocità, forza, potenza, che era richiesto nella vita di tutti i giorni, in modo intervallato e casuale. Nell’evoluzione dell’uomo questa era chiamata vita. Nei tempi moderni la chiamiamo, con gli ovvi distinguo, allenamento.

Siamo velocisti o fondisti?
Questa considerazione, seppur basata su fondamenti corretti e dimostrata dalla genetica, non sembra essere una vera discriminante nella prestazione. Biopsie su atleti, sempre più recenti, hanno dimostrato che la prima catalogazione di fibre, bianche o rosse, si è man mano evoluta in una innumerevole sotto-gamma di sfumature, fino a 7 nelle più recenti pubblicazioni scientifiche, che forniscono all’atleta una predominanza di potenzialità genetiche, ma anche una straordinaria possibilità di allenare le fibre “miste” per diverse azioni dinamiche.

Ed allora perché chi è fondista non è veloce? Il più delle volte la genetica non è la causa, semplicemente non ci si allena per quelle caratteristiche. E quindi si è completamente disallenati, sia negli aspetti neuromuscolari che metabolici. Questa situazione la ritroviamo in atleti che hanno sempre concentrato le proprie attenzioni su sistemi e metodi di allenamento in cui la “base aerobica” era la priorità. Allenamenti basati su lavoro cosiddetto “lungo e lento” (con terminologie, in realtà, diverse da sport a sport), con grandi volumi di attività fisica in steady state, ovvero a velocità costante e sottomassimale. Questo tipo di allenamento, basato su metodologie del secolo scorso, è tutt’oggi ampiamente praticato soprattutto da amatori e principianti, ma non più ritenuto la massima espressione di efficacia in base alle evidenze scientifiche.

HIIT, allenamento intervallato ad alta intensità
È il massimo trend mondiale nella sperimentazione delle aree Sport Science & Medicine. Tutto nasce agli inizi del 1900 con alcuni casi di successo nel settore dell’atletica, Juho Hannes Kolehmainen e Paavo Nurmi, finlandesi, ed Emil Zapotek, cecoslovacco, che hanno vinto tutto in tutte le distanze per oltre 50 anni. Tutti loro si allenavano con metodi “ad intervalli” ben diversi da quelli dei loro concorrenti; e vincevano. Ma poi negli anni anche tanti altri si sono avvicinati allo stesso metodo, replicando le varie tabelle “miracolose”.
Ma nessuno di questi replicanti è mai entrato nella storia.

Perché qualcuno vince ed altri no, pur con le stesse tabelle?
L’HIIT non è un metodo ideato da qualche stratega del marketing, ma è basato su evidenze scientifiche. E la fisiologia è basata sull’uomo e sulla sua diversità. Fino al 1960, le esperienze di “campo” dei metodi intervallati sono state innumerevoli ed una è  particolarmente nota anche nei giorni nostri: il fartlek. In svedese suona come «gioco delle velocità»: è stato applicato nel 1937 dall’allenatore Gosta Holmer per allenare gli atleti di Cross Country, sempre battuti da Paavo Nurmi. Era un allenamento «easy» intervallato da brevi (50-60 m) o lunghi (2k) intervalli «hard», finchè l’atleta non era stanco. Dava buoni risultati, ma non per tutti. Solo intorno al 1960 si passò ad una fase “sperimentale”, quando in Europa lo svedese Per-Olof Astrand, Professore di Fisiologia, pubblicò la prima ricerca sul metodo ad intervalli (3 minuti al 90%), seguita da una seconda ricerca («10» secondi al 100% e «10» di recupero), che probabilmente «ispirò» i successivi studi.
Nel mentre, anche in America gli studi sull’esercizio fisico iniziavano ad essere sempre più focalizzati sugli effetti. Il ricercatore americano Edward Fox si focalizzò su questi metodi intervallati per scopi militari, la differenza sostanziale tra i due filoni era il recupero: per il primo passivo, per il secondo attivo.

Recupero attivo o passivo?
La differenza è netta e non si tratta di fenomeni che sono intercambiabili. Scegliere una opzione tra le due è come avere una biforcazione in un incrocio, destra o sinistra? Le strade non si incontreranno, anzi divergeranno nettamente. Vediamo allora la differenza tra i recuperi, alla base delle variabili dell’HIIT.
Il recupero passivo è probabilmente quello che meglio conosciamo, perché è quello comunemente più usato e sicuramente abbiamo una abitudine, fin da bambini, ad usare questa modalità: quando si è stanchi, si chiede un “fermo gioco” e ci si ferma, fino alla nuova ripartenza.
Il recupero attivo invece ci consente, una volta terminata la fase intensa, di continuare senza mai fermarsi ad una intensità più bassa, magari con corsa ciclica o similare, mantenendo quindi l’organismo in attività. In questa modalità, manteniamo più alte le frequenze cardiache, la frequenza respiratoria ed il VO2.

Cosa si allena con l’HIIT?
A volte il marketing è più veloce della scienza e della metodologia ed oggi parlare di HIIT viene associato all’allenamento “per dimagrire” o all’allenamento per la “composizione corporea”. Ma come stanno davvero le cose? Le evidenze scientifiche sono ormai solide e si ragiona per review e non più su studi singoli, con effetti dimostrati, a proposito degli adattamenti sia centrali che periferici. (11; 12) Ora, il “puzzle” si sta ricomponendo e tanti tasselli sono quasi del tutto certi; vediamo di capirne i maggiori effetti, con immediati benefici sulla performance:
- riduzione dell’accumulo di lattato.
- Incremento del consumo di ossigeno.
- Incremento dell’attività della pompa sodio-potassio.
- Incremento dell’attività dei trasportatori di membrana.
- Incremento degli enzimi ossidativi e glicolitici.
- Incremento di catecolamine, di utilizzo di grassi e zucchero.
Alcuni di questi effetti sono a carico di adattamenti di tipo “centrale” (cardio-respiratori) ed altri di tipo “periferico” (muscolo-scheletrici), altri ancora si possono definire come adattamenti misti.

Capire se e come usare l’HIIT è un passaggio da fare, dopo aver analizzato l’obiettivo da raggiungere, i punti di forza e di debolezza dell’atleta, il suo grado di separazione dal modello, teorico, del campione o modello di prestazione.

HIIT e motivazione
“C’è una forza motrice più forte del vapore dell’elettricità e dell’energia atomica: la volontà”. Tra le frasi famose che Albert Einstein ci ha lasciato per riflettere, questa viene particolarmente bene per spiegare perché l’HIIT ha un suo particolare fascino nello Sport ma anche nel Fitness. I mondi infatti, seppur accomunati dall’attività fisica, si prefiggono obiettivi diversi, dove la prestazione non è il comune denominatore. Ma la motivazione sì.
Possiamo studiare la migliore metodologia del mondo, possiamo applicare le evidenze scientifiche più attuali ed efficaci, ma senza la motivazione e la forza di volontà dell’atleta non c’è nessun risultato ottenibile.
Questo aspetto è più chiaro nel Fitness che nello Sport. Da un lato, ci si focalizza nell’applicare metodi che “piacciono” e dall’altro metodi che “servono”. Questo porta l’utente Fitness ad essere motivato, divertito, stanco ma felice e sicuramente fidelizzato. E poi ecco l’atleta ad essere sotto pressione, soggetto ad allenamenti ciclici, lunghi e ripetitivi. L’abbandono nello Sport esiste come nel Fitness, ma moltiplicato più e più volte.

Avere un atleta motivato, che migliora con allenamenti efficaci, ma anche variati e divertenti, che stimolano ed utilizzano opportunamente enzimi, ormoni e nutrienti è un obiettivo che può essere perseguito con l’HIIT sia nello Sport che nel Fitness: migliorare la prestazione, facendo quello che serve in maniera (il più possibile) piacevole.

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