Le donne sono semplicemente più complicate!
Klaus Cachay, Carmen Borggrefe, Steffen Bahlke, Rebecca Dölling

Che sia nello sport di massa o ai vertici dell’agonismo, da molto tempo ormai lo sport non è più “roba da maschi”. Sia gli attuali numeri riguardanti le iscrizioni alle associazioni e ai club che la partecipazione alle Olimpiadi lo rivelano chiaramente: la prestazione sportiva di per sé non ha genere e allo sport può accedere chiunque abbia i requisiti prestazionali necessari. La presenza di uomini e donne nello sport, particolarmente ad alti livelli, sembra essere una cosa normale, una circostanza alla quale non si dovrebbe più rivolgere particolare cura. Se si incentra invece l’attenzione sull’attività di tutti i giorni di allenatori e allenatrici, di atleti e atlete, allora la differenza tra i generi sembra continuare ad occupare un ruolo rilevante. Perché a questo livello d’interazione, perfino in contesti di agonismo ad altissimi livelli, si sentono continuamente espressioni che stanno ad indicare una differenza rilevante tra uomini e donne.
Così ad esempio l’allenatrice della nazionale svedese di calcio, Pia Sundhage, ha constatato seccamente: “uomini e donne comunicano in modo differente” (www.FAZ.net, 29/10/2009). L’ex-allenatore di hockey Markus Weise, che ha allenato sia la nazionale femminile he quella maschile, ha riferito invece che “facendo un discorso di incitamento nello spogliatoio ai maschietti riesci a caricarli a mille nel giro di due minuti, mentre dopo lo stesso discorso la metà della ragazze ti guarda in maniera dubbiosa” (www.Süddeutsche.de, 7/5/2010). Ed il mental coach della nazionale femminile tedesca di pallamano, Lothar Linz, consiglia agli allenatori maschi di squadre femminili di “adoperare maggiore attenzione nei rapporti interpersonali e nella scelta delle parole”, perché le donne sarebbero “più sensibili” e più “ricettive ad eventuali interferenze” rispetto agli uomini (Sport agonistico 2008).
Riflettendo su queste affermazioni, si nota che le atlete vengono descritte come esseri diversi dai loro colleghi maschi, forse “più complicate”, ma forse anche “più semplici”. Quali sono le conseguenze di ciò per allenatrici ed allenatori nell’interazione con atlete ed atleti? Dovrebbero forse seguire determinate idee sui generi, sottolineandoli in particolare modo nei contatti con un gruppo piuttosto che con l’altro, oppure dovrebbero cercare di evitare proprio questo tipo di comportamento? Quale misura e quale forma di comunicazione di genere sembra sensata nello sport agonistico, e quando? E quando invece ciò si rivela controproducente?
Comunicazione di genere allenatore atleta: un esempio pratico
La prima sequenza proviene dalla disciplina dell’hockey e riguarda una comunicazione tra l’allenatore ed una giocatrice durante la partita. La scena comincia con il richiamo ad alta voce dell’allenatore alla giocatrice di lasciare il campo, “vieni fuori subito”, “sono ore che non ti muovi”, al che la giocatrice risponde “non mi urlare in questo modo”. Poco tempo dopo, quando la giocatrice si siede in panchina l’allenatore le si avvicina, si china su di lei, le tocca la testa diverse volte chiedendole scusa. La giocatrice risponde “va bene, non fa niente”. Pochi minuti dopo l’allenatore si reca nuovamente dalla giocatrice, le si rivolge con il nome8, si siede vicino a lei dandole delle indicazioni tattiche, toccandole la spalla e la gamba, mentre la giocatrice guarda dritto davanti a sé. L’allenatore termina la conversazione con la frase: “non farti confondere da me ora”, dando nuovamente due colpetti sulla gamba alla giocatrice.
Riassumendo la sequenza, la stessa è caratterizzata dal fatto che l’allenatore ritira la proprio critica (oggettiva) dopo la reazione brusca e risentita della giocatrice, rivolgendole in seguito particolare attenzione. Alla domanda sulle ragioni di questo comportamento, nell’intervista appare chiaro che l’allenatore motiva il proprio comportamento con idee stereotipate sulle specificità di genere: “Se hai a che fare con un ragazzo puoi anche redarguirlo o rimproverarlo in maniera forte e chiara, in modo che lui reagisca in modo diverso o pensi “quello è matto, io continuo a giocare”, ed in quel caso giocherà in modo più attivo, più aggressivo e più veloce. Con le donne invece succede piuttosto che si tirano indietro ancora di più o continuano a rifletterci sopra.”
Emerge chiaramente che, per l’allenatore, le donne sono sostanzialmente diverse dagli uomini e vanno quindi trattate in modo diverso. I ragazzi li puoi “redarguire” o “rimproverare ad alta voce” ottenendo in genere un effetto positivo sul loro comportamento di gioco. Infatti in genere giocherebbero in maniera “più aggressiva” e “più veloce”, mentre le donne, trattate alla stessa maniera, si “ritirerebbero in sé, riflettendo più a lungo su quanto detto”.
Andando avanti nell’intervista, l’allenatore precisa le proprie affermazioni sulla specificità del genere femminile attribuendo alla donna una specifica struttura della personalità: “[Le donne] se la prendono in maniera, come dire, personale? In fondo se le sto rimproverando è sicuramente un fatto personale. Non so se sono più permalose rispetto ai ragazzi, perché anche loro se la prendono in maniera personale, e sono incavolati con me. Ma dopo – e questo forse è veramente specifico del genere – puoi riavvicinarti a loro ad un livello di discorso più superficiale ed in seguito anche ridiscutere del fatto accaduto. Mentre con le donne, ti sei semplicemente rovinato la piazza per un bel po’ di tempo.” A detta dell’allenatore, le donne sembrano in generale più permalose rispetto agli uomini e per questo il rapporto con loro è più impegnativo: “Devi comunque vedere di andarle a ripescare per ripristinare un livello oggettivo impegnandoti a ristabilire il contatto con loro.”
Ma questa motivazione fondata su presunte caratteristiche di genere non viene affatto condivisa da un’altra giocatrice, la quale giudica la “ramanzina” ricevuta dall'altra giocatrice basandosi esclusivamente sulla situazione oggettiva e la trova del tutto giustificata:
“Era giustissimo che la rimproverasse perché (l'altra giocatrice) era veramente ferma da tre minuti, doveva sostituirla mentre quella continuava a giocare correndo avanti ed indietro davanti alla panchina anche se la palla non stava su quel lato. Avrebbe potuto tranquillamente uscire per un po’ di tempo. Per questo motivo era giustificato redarguirla e urlarle contro, perché non si può fare così. A parte questo, lei spesso si comporta così e la cosa dà sui nervi anche alle altre compagne di squadra.”
La citazione chiarisce in maniera inequivocabile che la reazione della giocatrice in questione alla sua sostituzione era del tutto fuori luogo e che l’allenatore aveva agito correttamente “sgridandola” o “rimproverandola”. Inoltre, le altre giocatrici criticano non solo il
comportamento dell’atleta redarguita quando è stata sostituita, ma si aspettano anche che un’ atleta di una squadra ad alto livello sia in grado di mandare giù una “sgridata” da parte dell’allenatore senza controbattere:
“A parte il fatto che non rimarrei cinque minuti a correre su e giù senza uscire quando vengo chiamata, normalmente non risponderei male all’allenatore se mi rimproverasse per qualche cosa o per qualche motivo.” “Se l’allenatore mi urlasse, lo manderei giù senza controbattere.”
Di fronte a questo tipo di affermazioni, non sorprende che le giocatrici non vedano alcuna necessità di una reazione specificamente motivata dal genere della giocatrice da parte dell’allenatore: “Se all’allenatore scappa una sgridata così durante la partita, per me non ci sono problemi. In fondo non è stato così pesante da offenderla personalmente. Quindi non sarebbe stato grave se non fosse andato da lei a parlarci dopo.” “Che sia andato a scusarsi con lei è stato assolutamente superfluo.” Mentre l’allenatore pensa quindi di dover trattare le giocatrici in maniera particolare, le stesse vedono in questo comportamento un segno di debolezza, presumono che abbia paura, che gli manchi il coraggio e che abbia un eccessivo bisogno di armonia: “È così con [questo allenatore] che vuole sempre essere gentile ed ha paura di fare la parte dell’allenatore spietato, perché non vuole assolutamente essere visto in quel modo.” “Probabilmente gli manca la forza di imporsi ed anche la volontà di farlo e forse anche l’autorità o il coraggio di imporsi.
In pratica dovrebbe essere il capo ed avere le idee decisive e noi siamo anche disposte ad ascoltarlo. Ma se tiene troppo all’armonia, se ha tanto bisogno di una situazione armoniosa, le cose non funzionano. E molte giocatrici sono anche snervate dal fatto che non prenda mai provvedimenti contro il comportamento capriccioso di alcune.”
Queste citazioni chiariscono senza ombra di dubbio che, nel caso in questione, l’allenatore, con il suo ricorso agli stereotipi di genere, non è affatto riuscito a soddisfare tutte le attese nei suoi confronti, mentre, al contrario, il suo comportamento è considerato non adeguato al suo ruolo e a lungo andare perfino dannoso per il successo della squadra. Inoltre, proprio queste ultime citazioni con il riferimento alla “forza di imporsi”, alla “volontà” o al “coraggio” indicano che alcune giocatrici in fondo vorrebbero qualcosa di più, vale
a dire proprio – per dirlo con gli stereotipi di genere – un allenatore più “virile”!
Conclusioni
La raccomandazione per allenatrici e allenatori non è quella di rinunciare fin dal principio alla comunicazione di genere, ma di porvi una maggiore attenzione. Perché ricorrendo agli stereotipi di genere nella comunicazione, soprattutto in modo moralizzante, spesso si va a parlare direttamente all’integrità personale della controparte ed è importante non seguire ciecamente le proprie idee, ma riflettere accuratamente quando e con quale persona potrebbe accadere di superare i limiti, producendo “ferite” che provocano resistenza, una resistenza che può portare non solo a “staccare la spina”, ma può anche sfociare in veri e propri conflitti e portare all’interruzione permanente di ogni comunicazione.
Per saperne di più SDS Scuola Dello Sport, n° 117. Perugia: Calzetti & Mariucci, 2018.