Di Carlo Vittori
Bisogna risalire alla fine degli anni Settanta e percorrere tutto il decennio per rendersi conto quanto di utile e di dannoso sia stato fatto sul modo di concepire l’allenamento. Era il periodo della chiamata degli specialisti delle scienze biofisiologiche, professori e ricercatori che aprivano le vie della cultura e della necessità di seguire nella attività di allenatori, gli atteggiamenti e le vie più proprie alla prassi scientifica. Ci fecero comprendere, forse a volte con eccessiva crudezza, quanto vasto fosse il terreno che ci separava da conoscenze essenziali e quanto grande fosse la nostra ignoranza, ma certamente stimolando l’amor proprio di quegli allenatori che erano partiti con un appassionato ed entusiastico desiderio di capire, per sbagliare meno.
Convegni, simposi, tavole rotonde, raduni di allenamento, scambi di esperienze, nelle aule e sui campi di allenamento, in Italia e all’estero hanno arricchito quel periodo di fertili esperienze. Tutte le occasioni erano buone per scambi di idee e di conoscenze, senza gelosie e reticenze, ma soltanto per capire, confrontare e rielaborare altre e nuove soluzioni di spunti metodologici. Tanto fu fatto ed ancor di più fu scritto in quei favolosi anni Settanta, ma sempre sullo stesso filone culturale, attinente alla ricerca delle soluzioni migliori per stimolare le più efficaci risposte delle componenti i “requisiti fisici”. E così ininterrottamente, purtroppo fino ad oggi, gli attuali “Soloni dell’allenamento” hanno insistito a disquisire, come una sorta di pensiero maniacale monotematico, congelato sulle stesse argomentazioni relative ai tanto poco probabili effetti di miglioramento da produrre sulla funzionalità ed efficienza delle componenti organica e muscolare dell’atleta. Trascinando, purtroppo, in un vicolo cieco anche gli allenatori che, dovendo spiegarsi i motivi dei contraccolpi comportamentali e delle controprestazioni dei loro atleti, finivano per attribuirli sempre alla scarsa efficacia dei mezzi, degli ingredienti e degli strumenti del training. Aggiungendo, spesso, anche con toni inopportuni, disturbi caratteriali e temperamentali degli atleti, i soli secondo loro, ad aver determinato i cali di tensioni e le difficoltà a sopportare le forti emozioni di competizioni importanti. Consentendo, così, di aggiungere errore ad errore, e finendo per scaricare tutte le responsabilità sull’atleta, finendo per distruggerne la già precaria fiducia in se stesso, facendolo precipitare in un deliquio irrimediabile. In una risposta onesta ed equilibrata, ad una domanda schietta ed autentica sul perché, dopo tanto lavoro, si possono avere così contraddittori comportamenti, sta la spiegazione: avere dimenticato quegli interventi necessari a fare da supporto “motivazionale” agli altri di formazione. Seguire, soprattutto con i giovani principianti, i contenuti dell’aforisma “motivazione più che formazione”, da adottare come propedeutica alla costruzione fisica. Prestare attenzione ad un’azione pedagogica che susciti l’interesse, l’amore, la passione e l’attrattiva del giovane per ciò che si appresta a fare, indispensabile per tradurre in curiosità verso se stesso e ciò che sarà capace di fare, sempre più consapevolmente, al fine di acquisire quella autonomia di comportamenti che lo sganci dalla eventualità di probabile tutela dell’allenatore.
Si debbono attuare tutti gli strumenti educativi, per far partorire al giovane la convinzione delle sue potenzialità da tradurre in certezze possibili. È già stato scritto tanto sulla necessità di incentivare nel giovane la migliore e più ampia conoscenza di se stesso, supportata da un equilibrato amor proprio, per non temere, ove occorra, di autogiudicarsi con rigore. Dovrà praticare comportamenti che siano il frutto di una sempre migliore autonomia, indispensabile, quando sarà solo nei momenti competitivi importanti, per gestirsi al meglio. La sua gratificazione si realizzerà a pieno quando avrà superato se stesso più che gli avversari. Sono questi gli umori che, rendendo il coinvolgimento del giovane al training più cosciente, responsabile, scrupoloso, appassionato ed entusiasta, favoriscono una più consistente ed efficace sommazione di effetti positivi, conseguenti al training. Motivazioni forti e radicate nell’intimo cosciente attivano più efficacemente ormoni e sistema nervoso centrale, sollecitando i muscoli, come effettori, a risposta di maggior efficienza. Non è un paradosso affermare che, nelle specialità di “forza veloce”, si allenano soprattutto gli ormoni. Questa strategia, ovviamente, si rafforza e si esalta con la crescita e lo sviluppo, e per questo negli anni della maturità deve assumere un rilievo più marcato. A quanto sopra, si deve aggiungere con particolare rilevanza la necessità che i contenuti del training e la loro ordinata organicità di sviluppo, a conclusione del periodo di crescita fisica, si arricchiscano di mezzi e metodi più specifici, per rimanere adeguati ai crescenti livelli di evoluzione e seguitare a svolgere la loro doppia funzione di causa ed effetto dei miglioramenti. Al contrario, qualora scadessero nel ripetitivo e nella routine, si assisterebbe, inevitabilmente, ad un decadimento, per tedio e noia, spesso inconsapevoli, di quegli umori emozionali, vitali per grandi prestazioni. Allenamenti, quindi, che si rinnovano. Contenuti che cambiano. Compagni di allenamento stimolanti il confronto in ambienti anche diversi. Proposte, insomma, all’altezza degli stimoli che debbono interessare tutte le individualità dell’atletica in continuo progresso di efficienza. Queste sono le grandi dimenticanze richiamate nel titolo e che incidono in maniera determinante sul rendimento, preparando il terreno più fertile per una più proficua applicazione e resa degli strumenti della formazione fisica.
Motivazione più che formazione La cosa più importante affinché da tutte le attività si possa trarre il maggior vantaggio e non frustrare le aspettative dell’atleta, è spostare l’attenzione anche verso le motivazioni che vivacizzano i comportamenti, stimolano l’attivazione degli ormoni, agevolando la facilità di toccare punte elevate di dinamismo. Mobilitare particolari emozioni di piacere per caricare di vigore le risposte dell’atleta è indispensabile per avere effetti “supercompensativi” ingranditi, da parte del suo organismo, altrimenti l’attività si svolge con il sapore amaro di un dovere, scadendo in un tedioso impegno di routine, che non produce niente di positivo, avvitandosi intorno alla regressione. Più direttamente sono proprio gli ormoni che debbono essere mobilitati tramite un continuo rinnovamento degli interessi e delle motivazioni che li stimolino. L’allenatore deve spingersi alla ricerca di nuove vie, di metodi e di organizzazioni dell’attività, accompagnando così la crescita evolutiva dell’atleta, per misurarsi con le sue curiosità e le sue emozioni, sentendosi cioè spinto dal nuovo. Va da sé, nel concetto di progresso, che la crescita avvenuta nell’atleta, abbia bisogno, per non arrestarsi prima ed arretrare poi, di stimoli più eccitanti il suo entusiasmo e di livello di qualità e caratteristiche superiori, per non adattarsi all’abituale, superando l’attuale. Non ci si può fermare nella riproposizione del passato, se sono cambiati i paradigmi qualitativi e i termini di confronto dell’atleta, perché il passato ha già dato i suoi effetti. Nessun grande impegno e grande prestazione possono essere prodotti senza un particolare stato d’animo, propenso all’entusiasmo e ad una condizione dello spirito rivolto all’attrazione per la cosa oggetto dell’interesse.
Per saperne di più: Carlo Vittori, Nervi e cuore saldi. Perugia: Calzetti & Mariucci, 2014.